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UN'ARTE CONTAGIOSA by Maria Molinari
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Divorando testi epidemiC sui virus come strumenti di creazione artistica e di comunicazione, sul viruscode come atto poetico e allo stesso tempo rivoluzionario, un dubbio contagia, una visione infetta: forse Dio per creare il mondo ha scritto un codice sorgente












Catch me if you can. Il messaggio trasmesso dal primo virus in assoluto, apparso sui monitor degli utenti collegati alla rete ARPAnet nel 1970, indicava l’identità del “germe”, Sono Creeper, e una sfida, “cacciami se puoi". Con il tempo l’identità dei germi è cambiata, ma la sfida è la stessa. L’ultima risale a lunedì 27 gennaio, quando il worm SQL Slammer ha colpito, qualcuno ha precisato “ha punito”, le Poste Italiane, bloccando 14mila sportelli e creando disagi non solo agli utenti, ma anche ai dipendenti. Immediata la reazione dei media: il “male” ha colpito ancora! Pochi giorni dopo, invece, un altro virus ha dato il nome ad un evento ed è diventato, parte integrante di un museo e segno indelebile della memoria culturale dei nostri tempi. All’Haus der Kulturen der Welt (La Casa delle Culture del Mondo) di Berlino, in occasione della transmediale 0.3, uno dei più importanti festival del multimediale, si è tenuta infatti “I love you – computer_viruses_hacker_culture”, un’esposizione di Digitalcraft sui virus informatici.

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L’ARTE DEL VIRUS
I virus fanno parte del nostro patrimonio collettivo già da tempo ed è forse proprio per questo che hanno suscitato l’attenzione di un museo. Partecipano attivamente alla nostra vita (al computer) dal 1986 da quando cioè Basit e Amjad svilupparono Brain, il primo virus in ambiente Dos e Ralf Burger presentò alla conferenza del “Chaos Computer Club” il suo Virdem, un virus dimostrativo che infettava tutti i file com. E’ solo di recente, però, che siamo davvero coscienti dell’esistenza di questi esseri digitali e del loro potere di auto-replicarsi, e cioè da quando, quel 3 maggio 2000, un messaggio di posta elettronica con oggetto I Love You (di qui il nome appunto dato all’esposizione di Berlino), con allegato il file "LOVE-LETTER-FOR-YOU.TXT.vbs", colpì 300.000 sistemi in meno di 24 ore, mise KO i computer di banche, grosse società e persino di alcuni parlamenti. Alcuni virus si erano già diffusi sulla rete prima di quella data – basti pensare a Melissa -, ma per la prima volta i media parlavano di danni notevoli. Da quel giorno i virus animano le nostre paure digitali. A renderle più intense, a radicare in noi l’idea che siano solo delle brutte infezioni e rappresentino una minaccia economica, a mantenere alta la tensione mediatica sul fenomeno, le case antivirus che rilasciano periodicamente terrificanti bollettini di guerra oltre che gli “anticorpi” per bloccare e distruggere l’azione dell’antigene digitale, il corpo estraneo .
Digitalcraft ha avuto il merito di proporci invece una diversa visione del fenomeno, ponendo l’attenzione sull’intera natura del virus e non solo sui suoi aspetti negativi. Dopo aver presentato una vasta gamma di infezioni digitali ed aver effettuato delle opportune distinzioni tra un tipo di virus ed un altro, ci ha dimostrato come esso possa influenzare l’arte digitale; sia fonte d’ispirazione per l’arte e esso stesso oggetto d’arte digitale applicata, degno quindi di stare all’interno di un museo. Ci ha svelato il suo potenziale artistico, il suo potere estetico ed anche la sua capacità di raccogliere, produrre e diffondere informazione.

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I LOVE YOU HACKER CULTURE!
Arte, estetica, sicurezza e tecnologia: questi i temi affrontati a Berlino. Nel museo allestito con vari terminali e un database interattivo contenente centinaia di virus emulati sono intervenuti net.artisti, programmatori, esperti della sicurezza IT, poeti del codice sorgente, sociologi e storici dell’arte; sono stati affrontati la storia dei virus software e il loro sviluppo tecnico; sono stati resi visibili quei processi digitali e virali normalmente nascosti nella scatola nera del computer. Il virus finalmente non più cosa oscura, ma addirittura manipolabile dai visitatori i quali non solo hanno assistito a varie dimostrazioni di effetti e di interessanti payloads, ma hanno potuto attivare alcuni virus ed effettuare crash di sistema. Particolare attenzione è stata rivolta al potere artistico dei virus, all’intero processo creativo che porta alla loro realizzazione e in particolare all’estetica del codice e alla sua scrittura come atto estetico e nel contempo rivoluzionario. A rappresentare quest’altro volto del virus anche programmatori ed artisti italiani: gli EpidemiC e i 0100101110101101.ORG, con i loro virus "biennale.py" e "bocconi.vbs", ormai dichiarati vere e proprie opere d’arte; e Jaromil programmatore free software nonché artista, i cui lavori hanno introdotto all’etica hacker e alla funzione estetica dei virus software. Per l’occasione è stato anche invitato Trend Micro, un produttore di software anti-virus più interessato al fenomeno dal punto di vista dell’economia e della sicurezza.

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NON SOLO MALATTIA
Il virus è apparso non solo come un agente patogeno, emissario del danno, ma come prodotto di un approccio sperimentale al linguaggio che è ancora in via di sviluppo; il codice o meglio il viruscode, non solo nelle sue funzioni, quali stabilire una comunicazione tra chi lo utilizza (user) e il computer, permettere al coder di creare programmi eseguibili -, ma anche come un testo con una sua estetica, con una sua forma quale può averla qualsiasi linguaggio scritto e parlato. Nel codice, secondo gli epidemiC, “forma e funzione coincidono e raggiungono le altezze della poesia stessa con tutto il potenziale di un linguaggio che nasce per il net e si diffonde in esso”.
Per i programmatori consapevoli dell’infinita magia della loro arte, i virus non sono dei semplici tool ma programmi di creazione artistica e il codice è una forma di poesia comparabile a quella sperimentale dell’ultima avanguardia - Boudelaire, Rimbaud, Apollinaire e i surrealisti -, alla poesia moderna di Jandl nella quale risalta la musicalità della parola, e il senso del dettaglio. Il codice, insomma, come testo da recitare (gli epidemiC hanno recitato quello di I Love You) o un Calligramma di Apollinaire che, ricordiamo, riusciva a dare forme grafiche diverse alle parole, rendendo la poesia disegno; come poesia concreta i cui testi ridotti a poche parole, lettere e segni di punteggiatura, aspirano allo status di oggetti d’uso o ad essere comprensibili in tutto il mondo, proprio come i cartelli stradali; persino come un haiku giapponese, breve componimento di 5-7-5 sillabe privo di titolo, minimalista, asciutto e compatto, nel quale il poeta è solo uno strumento, mentre il soggetto è rappresentato dall’oggetto che anima il componimento. Nella forma di un haiku è la prima poesia scritta in Perl da Lerry Wall nel 1990. Nella poesia Perl che è program code e il program code è poesia, il testo può rappresentare l’ispirazione di chi lo ha scritto, adempiendo nel contempo, attraverso l’interazione col computer che l’interpreta, allo scopo per il quale è stato programmato. Così appaiono le opere perl di Sharon Hopkins ed anche i codeworks di A. Sondheim, programmatore ed artista, per il quale i virus sono stati appunto fonte d’ispirazione.


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