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HACKER ART: INTERVISTA A TOMMASO TOZZI by Patrizia Ferri

Tommaso Tozzi è nato a Firenze nel 1960. Presidente dell'Associazione Culturale Strano Network. Docente all'Accademia di Belle Arti di Carrara e all'Università degli Studi di Firenze. Autore di Hacker Art BBS (1990) e ideatore del primo netstrike mondiale (1995). Membro fondatore del newsgroup Cyberpunk (1991) e della rete Cybernet (1993). Insieme ad Arturo Di Corinto ha scritto di recente il libro Hacktivism. La libertà nelle maglie della Rete, pubblicato da Manifestolibri (Roma, 2002).

http://www.hackerart.org/

 

PATRIZIA FERRI: Sembrerebbe che la net art stia vivendo un momento di successo: cosa ne pensi dei tentativi di museificazione e commercializzazione di un fenomeno che nasce in contrasto o comunque si pone molto criticamente rispetto al sistema dell'arte?

TOMMASO TOZZI: Non credo che la net art (o meglio il termine "net art") nasca in contrasto con il sistema dell'arte, infatti nasce nel momento in cui il sistema dell'arte inizia ad occuparsi di arte in rete e spesso le opere definite di "net art" sono opere pienamente integrate in tale sistema. Semmai alla nascita del termine (1995) collabora un'area di artisti, intellettuali, attivisti, ed altro che criticano taluni aspetti del sistema dell'arte, producendo riflessioni, pratiche, strumenti ed altro che estendono e proseguono la produzione di riflessioni, pratiche, strumenti ed altro precedenti a tale data.

Questo percorso di riflessione critica sulla rete, iniziato ben prima del 1995 è rivolto a differenti ambiti disciplinari, tra cui quello scientifico, economico, politico e sociale ed anche artistico. Tale percorso continua a svilupparsi transitando anche dentro alle istituzioni, ma non per questo perde efficacia. Diversamente, molto di ciò che è stato definito "net art" è nato per combinare le nuove tecnologie della rete (di per se fortemente seducenti e quindi potenziali fattori di incremento di vendita) con un'area dell'estetica che si concede al mercato ed ai rapporti di potere in esso insiti senza posizioni critiche e tantomeno conflittuali.

Di solito, ma un'affermazione del genere può facilmente essere contraddetta, le mostre di "pittura digitale" (on-line ed off-line) finiscono per fare un favore al sistema del mercato dell'arte, anziché forzarne una trasformazione in meglio. Non e' un caso che il termine "net art" nasce in contemporanea all'esplosione del mercato nel web ed alla nascita delle prime gallerie e musei interessati all'arte in rete. Di arte in rete si parla da molto prima della nascita del termine "net art". Se ne parla, sia dentro le istituzioni che fuori (in quest'ultimo caso se ne parla nel momento in cui si riflette intorno alle potenzialità creative che lo strumento consente, ma anche nel momento in cui si riflette sul rapporto tra società, cultura e reti telematiche).

Dunque, credo che affermare che vi sia in atto una commercializzazione della net art è secondo me una tautologia, in quanto quella caratteristica è una parte della stessa definizione di "net art", forse non esplicita nelle parole, ma sicuramente implicita nei fatti storici. Per concludere la risposta tendo però a chiarire che sono convinto che dentro ad alcune delle situazioni che promuovono e si riconoscono in quel termine vi sono molte persone o gruppi che si muovono in modo decisamente conflittuale verso il mercato dell'arte, in particolar modo verso la concezione neoliberista del mercato dell'arte e ne minano quotidianamente le fondamenta attraverso il loro lavoro artistico.

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PATRIZIA FERRI: Ti consideri un net-artista?

TOMMASO TOZZI: Se devo avere un'etichetta preferisco riconoscermi nel termine "hacker art". Ma sono piu' felice se le etichette le si usano solo quando proprio non ci si riesce a capire o non se ne può fare a meno. Ovvero, ad una definizione fatta attraverso un termine (net-artista) preferisco una definizione fatta attraverso un discorso, possibilmente fatto in gruppo, come ad esempio avviene attraverso le mailing list. Non sto portando ad esempio il popolo che Swift nei Viaggi di Gulliver descrive come coloro che girano con un enorme sacco di oggetti che estraggono al posto delle parole quando devono nominare qualcosa. Mi riferisco invece al fatto che i nomi vanno usati con cautela, in quanto il loro senso è relativo al modo in cui determinate culture lo hanno proposto attraverso un processo di relazioni intorno a tale termine. Dunque credo che anche le parole che stiamo facendo leggere in questo momento per essere ben comprese vanno "vissute" attraverso relazioni ben più ampie ed interattive tra noi ed i nostri lettori.

PATRIZIA FERRI: Ritieni ci siano differenze sostanziali tra net art, web art, software-art, ascii art ecc...

TOMMASO TOZZI: Sì. Ma purtroppo tali differenze le decide (ovvero le impone) chi ne parla attraverso, ad esempio, un articolo o un libro. Infatti se si prendono come definizioni che indicano semplicemente uno specifico strumento o linguaggio informatico usato all'interno del proprio fare artistico, la definizione diventa riduttiva per due motivi: il primo è che le classificazioni sono suscettibili di cadere frequentemente in chiare contraddizioni (come ci spiega Eco, l'esempio dell'ornitorinco è lampante in questo senso), il secondo è che spesso il modo in cui l'artista dà senso a quella definizione è diverso dal modo in cui ciò viene fatto da un critico (o semplicemente da chi usa tale termine).

Di nuovo, la definizione e dunque la differenza tra tali termini appartiene più alla storia di chi vi si è relazionato (artisti, critici, scienziati, spettatori, ecc.) che non ai termini stessi. La si capisce nel momento in cui si "partecipa" a definirne il senso. Quello che voglio dire è che la definizione di tali termini non la si può trovare in una frase in questo articolo, ma in un "ipertesto" di pensieri e pratiche che si estende nel tempo e nello spazio. Vi è un "senso di rete" insito in ogni termine. Una caratteristica per cui ciascuna asserzione che possiamo fare noi ora va messa in relazione con altre asserzioni precedenti o simultanee nel tempo, vicine o distanti nello spazio.

Cercare un significato universale (preferisco quel termine al termine "globale" che secondo l'interpretazione di alcuni movimenti è sinonimo di "totalitario") per tali categorie artistiche è importante nel momento in cui si accetta che comunque tale significato universale non possa essere mai ne fisso, né unico, bensì risiede nel dialogo e nell'accordo libero tra una molteplicità di soggetti sparsi nell'universo.

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PATRIZIA FERRI: La cosidetta hacker art che si contraddistingue dunque sopratutto per la sua radicalità e la forte base etica, della quale sei il teorico oltrechè l'iniziatore, in cosa si differenzia di fatto dalle altre pratiche in rete?

TOMMASO TOZZI: Al solito, io (forse) ho inventato un termine (hacker art), ma sicuramente non il suo senso. Per come la vedo io, il senso del termine appartiene almeno a tutte quelle culture che si sono riconosciute nell'etica hacker. Ma quando personalmente pensavo a quel termine io lo pensavo figlio anche di molte altre esperienze artistiche (gli happening e fluxus, il situazionismo, il concettuale, dada, il surrealismo, l'astrattismo e molte altre). Non riuscivo a vederlo lontano dal punk e dai movimenti sociali ed underground. Non riuscivo a vederlo lontano dal lavoro di molti scienziati, filosofi, sociologi, ecc. Non riesco a separarlo dalle relazioni e dagli affetti della mia vita, dalle chiaccherate con altri artisti, critici, collezionisti o amici e parenti. Dunque io non ho iniziato l'hacker art.

L'hacker art, per come la penso io, è un'attitudine millenaria che nel tempo ha assunto ed assumerà le forme più svariate. Se vuoi qualcosa di più preciso, l'unica cosa che mi riesce a dirti è che per me fare hacker art significa fare qualcosa che ha come stella polare i valori della libertà, dell'uguaglianza, della fratellanza, della cooperazione, del rispetto, della lealtà e della pace. E che per seguire tali valori le pratiche dell'hacker art vanno (in modo consapevole o inconsapevole) in conflitto con interessi di individui e gruppi che ripudiano tutti o alcuni di tali valori.

Fare arte è per me il partecipare ad un processo di trasformazione della cultura, attraverso ogni strumento che la propria creatività ci mette a disposizione. Fare hacker art significa, per me, garantire l'esistenza di un controllo dal basso (individuale o collettivo) che garantisca che tale processo di trasformazione persegua i valori citati prima.

PATRIZIA FERRI: Sciogliendo il vecchio problema se il mezzo sia o no il messaggio, c'è da dire che la rete è in realtà un linguaggio a sè che va naturalmente capito nei suoi nessi, esplorato, creato secondo le proprie potenzialità: usato quindi adeguatamente e per scopi precisi può veramente cambiare la vita, liberare il mondo, dare consapevolezza?

TOMMASO TOZZI: Ne sono certo. Ne sono certo perché è un dato di fatto che il linguaggio della rete è inestricabilmente connesso con i linguaggi di altri strumenti di comunicazione non digitali, così come con le azioni e relazioni del mondo reale. Ogni parte sia dello strumento rete, che del suo linguaggio risente ed è contaminato da altri strumenti e linguaggi. Il linguaggio della rete è parte di una cultura ben più ampia che sta subendo delle trasformazioni attraverso questa tecnologia, ma tali trasformazioni possono e devono essere sotto il controllo quotidiano di ogni individuo. Sia la rete, che gli strumenti della comunicazione precedenti, sono l'oggetto costante di un conflitto intorno alla tutela dei diritti universali.

Ogni individuo può, come sta avvenendo in particolar modo in questo periodo storico, unirsi ad altri per protestare quando la trasformazione lede i suoi legittimi diritti. Quello che credo è che quando uno strumento per esistere ha bisogno di creare unità (le mailing list così come molti altri spazi di interazione virtuale), tale unità consentendo il dialogo ed il confronto restituirà consapevolezza, e se le persone sono consapevoli cercheranno anche di essere più libere.

Il problema è quando questi strumenti saranno utilizzati per porre muri tra le persone, limiti alla comunicazione o per costruire "illusioni" fittizie del dialogo e della relazione, per controllarne i comportamenti e dunque i bisogni che più sono adeguati alla produzione di profitto attarverso la vendita di merci. Ma quando si fa un'ipotesi del genere non si sta più parlando di "rete". Lo strumento stesso andrà chiamato in un altro modo (io proporrei "cella"). Quindi, domandarsi se la rete fornirà libertà e consapevolezza è tautologico, poichè quella è una delle definizioni di rete, altrimenti stiamo parlando di qualcos'altro, ed allora la domanda va ripronunciata.

Roma, 12 Febbraio 2003

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